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L’INDICE GLICEMICO

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Sportman & Fitness – dicembre 2000

Occorre ricordare che i glucidi si distinguono in semplici e complessi in quanto la disponibilità energetica dei primi è rapida mentre quella dei secondi è lenta, ma il problema è più complesso in quanto, pur essendo vero che il consumo eccessivo di mono e disaccardi può produrre effetti sfavorevoli sull’elevazione della glicemia (tasso di glucosio nel sangue), è anche vero che la risposta glicemica ed insulinemica all’introduzione di cibi contenenti glicidi, varia in funzione non solo della quantità di questi ultimi, ma anche della natura del cibo, del metodo di preparazione, della distribuzione e composizione dei pasti, della presenza di altri costituenti (le fibre vegetali idrosolubili ritardano lo svuotamento gastrico e riducono i livelli ematici postprandiali del glucosio e del colesterolo).

Una porzione di 90gr di lenticchie ed una di 75gr di pane contengono la stessa quantità di carboidrati (circa 50gr); si potrebbe quindi pensare che, nelle ore successive alla loro ingestione, entrambe le porzioni abbiano lo stesso effetto sulla glicemia.

Invece, si è osservato che l’incremento glicemico ottenuto con le lenticchie è pari solo al 40% di quello determinato dal pane.

Ciò avviene perché i carboidrati contenuti nelle lenticchie vengono assorbiti più lentamente di quelli contenuti nel pane. Con quanto detto precedentemente, non si intende demonizzare i carboidrati che anzi costituiscono una fonte energetica indispensabile, però è dimostrato che il rialzo glicemico post-prandiale è fortemente dipendente dalla quantità e soprattutto dal cibo a prevalenza glucidica che noi consumiamo in quel pasto ed oltretutto sono proprio le variazioni rapide ed elevate della glicemia che possono influire negativamente a livello di alcuni organi dell’organismo in toto.

Per distinguere i vari alimenti in base alla loro capacità di provocare un rialzo glicemico più o meno consistente, David Jenkis, noto nutrizionista canadese, ha sviluppato il concetto di indice glicemico dato dal rapporto tra la risposta glicemica post-prandiale ad un singolo alimento e la risposta glicemica ad alimento di riferimento, dove la quantità di carboidrati nei due alimenti è uguale.

Quale alimento di riferimento fu utilizzato in un primo tempo il glucosio, ma successivamente si è preferito il pane.

L’INDICE           area di incremento glicemico indotta dall’alimento

                  =                                                                            ______  X  100

GLICEMICO                   100 area di incremento glicemico

indotta da pane o glucosio

Molte sono le spiegazioni addotte per giustificare la diversa capacità iperglicemizzate di alimenti con uguali quantità di carboidrati.

  • Lo stato di idratazione e la grandezza delle particelle, come nel caso dell’amido o di altri polisaccaridi;
  • La forma: ad es. le risposte glicemiche ed insulinemiche sono più elevate dopo ingestione di “ground rice” (riso a chicchi piccoli e tondeggianti, più teneri dopo la cottura) al posto di “whole rice” (chicchi allungati di maggiore consistenza), o di purea di mele al posto di mele intere;
  • Il tipo ed il grado di cottura, inoltre, sembrano influire sulla risposta metabolica all’amido;
  • Il tipo e la qualità delle fibre alimentari associate alla dieta;
  • L’entità del rapporto lipidico e proteico di un pasto completo;
  • La presenza di sostanze quali i fitati ed i tannini, o di inibitori enzimatici naturalmente presenti nei cibi, la cui attività può variamente sopravvivere alla cottura (ad es. gli inibitori dell’amilasi del frumento nella preparazione del pane; l’amilasi è un enzima che serve a digerire i carboidrati).

Jekins ha confrontato più di 60 cibi e zuccheri diversi e da tali confronti è emerso che cibi con un’elevata percentuale lipidica, come il latte intero ed il gelato, provocano minimi rialzi della glicemia rispetto a quanto operato dal pane. I cibi che hanno dato luogo alle curve glicemiche più piatte, si sono rivelati i legumi (piselli, fagioli, lenticchie) che infatti rappresentano la fonte alimentare più ricca in fibre. Anche all’interno di pasti misti, l’utilizzazione prevalente di alimenti a basso indice glicemico sembra comunque favorire il controllo della glicemia (ricordiamo che la risposta glicemica ad un tipo di carboidrato, è l’azione che esso esercita sui livelli di zuccheri nel sangue ed in particolare ci dice come il sangue di un individuo si arricchisce di zuccheri dopo aver consumato quel tipo di carboidrato; in parole povere è la variazione dei livelli di glucosio, ematici, nel tempo indotti dall’ingestione di quell’alimento). Si è osservato che patate e pane bianco provocano una iperglicemia post-prandiale più elevata in confronto a quella determinata dal riso integrale, dal pane integrale, dalla pasta e specialmente dai legumi ed in particolare da lenticchie e piselli (indice glicemico basso), a parità di contenuto glucidico.

A questo punto possiamo dire che la classica distinzione in glicidi semplici (a rapido assorbimento) e glicidi complessi (a lento assorbimento), è relativa in quanto si è osservato che gli uni e gli altri sono assorbiti a velocità simili se i glicidi semplici sono consumati alla fine di un pasto misto e che gli amidi e gli zuccheri semplici in soluzione acquosa, inducono una risposta glicemica simile.

In pratica, gli alimenti ricchi di idrati di carbonio non vengono di regola consumati da soli ma nel contesto di un pasto misto, per cui anche l’utilizzazione dietetica dell’IG ha il suo limite nelle possibili interferenze tra alimenti, soprattutto in ragione del loro contenuto in fibra vegetale idrosolubile.

E’ comunque evidente che per evitare rapide variazioni della glicemia e della secrezione insulinica che, se elevate possono provocare danni che si ripercuotono sugli organi e sull’intero organismo (magari non vengono avvertiti nel breve periodo, ma se questa situazione di “botte” glicemiche si ripete costantemente e per molto tempo, si possono instaurare anche patologie gravi), è consigliabile consumare cibi a basso IG (pasta, legumi, ecc.) piuttosto che quelli ad alto IG (pane bianco, patate, ecc) oltre a limitare i glicidi semplici a rapido assorbimento. Fino ad ora, abbiamo parlato dei carboidrati, dell’IG, della variazione di glicemia ed insulinemia legati alla composizione del pasto e dell’alimento. Un fattore fondamentale che non bisogna assolutamente tralasciare, è la variazione della risposta individuale ai carboidrati, legata al metabolismo del soggetto (la sensibilità all’insulina) che è determinata geneticamente ma che può essere migliorata o peggiorata dalle abitudini alimentari e dallo stile di vita. All’interno della gamma di variazioni della risposta dell’organismo ai carboidrati, si passa da individui che possono consumarne senza ingrassare (nel contesto di diete normocaloriche o leggermente ipercaloriche), ed altri che con quantità minori, degli stessi carboidrati, tendono ad ingrassare. Alla base di questa differenza, nella possibilità di consumare più o meno carboidrati con o senza effetti indesiderati, vi è la variazione individuale nella metabolizzazione ed utilizzazione dei carboidrati, dipendente sia da sistemi enzimatici specifici, che dalla sensibilità all’insulina e cioè da come una normale produzione di insulina va ad incidere sul trasporto di glucosio nei tessuti muscolari ed epatici. L’espressione “resistenza” all’insulina, fa riferimento ad una situazione nella quale il trasporto di glucosio nei tessuti sensibili alla stessa, viene in qualche modo inibito. A seconda del grado di resistenza all’insulina, il glucosio e l’insulina ematici, possono aumentare dando il via ad una maggiore conversione di glucosio in grasso attraverso il fegato o, se si è in presenza all’insulina anche a livello del tessuto epatico, attraverso un meccanismo che coinvolge le pareti arteriose. La diversità della forma e della complessità di struttura che i carboidrati possiedono, si traduce in un diverso grado di digeribilità e per molte persone, questo implica la necessità di scoprire come viene metabolizzato il glucosio derivante da questi alimenti per poter assumere quelli più idonei. Chi ha il problema di un’aumentata resistenza all’insulina (che limita la capacità di sfruttare completamente i glucidi ingeriti) può trarre vantaggio dal consumo di carboidrati a più lenta digestione. La lentezza del rilascio del glucosio, permette all’organismo di utilizzarlo al meglio e per un tempo più lungo, mantenendo anche un livello di insulina adeguato e soprattutto non provocando rialzi dannosi. Peggiore è il grado di tolleranza ai carboidrati, maggiore sarà il bisogno di glucidi a più lenta metabolizzazione. Cambiare il metabolismo è un po’ difficile (appunto perché sono implicate caratteristiche genetiche difficilmente mutabili), ma variare le abitudini alimentari non lo è per niente (forse un pochino si, ma bisogna sforzarsi per raggiungere qualsiasi obbiettivo), tutto ciò che una persona ha bisogno, è una guida che gli indichi quali sono i cibi da assumere, per sfruttare al massimo i carboidrati ingeriti in base al suo grado di sensibilità insulinica, e questa l’abbiamo identificata con la tabella degli indici glicemici (verrà mostrata in seguito).

L’efficace utilizzo dei carboidrati, è caratterizzato da un normale grado di sensibilità all’insulina, da un aumento del glicogeno nei tessuti muscolari ed epatici, da un ridotto utilizzo degli aminoacidi per la produzione di energia e da una loro scarsa conversione in grasso. Con il diminuire del grado di tolleranza al glucosio, aumenta la quantità di carboidrati che assunti attraverso una normale alimentazione, possono essere convertiti in grasso a causa di un loro mancato utilizzo ed allo stesso tempo si riduce anche la quota di glicogeno immagazzinato. Il metabolismo degli aminoacidi viene influenzato in modo negativo a causa degli ormoni solitamente associati alla scarsa tolleranza ai carboidrati. Questo spiega perché gli individui che presentano una scarsa tolleranza ai carboidrati, possono ingrassare seguendo una dieta povera in grassi ma contenente una quantità ed una qualità di glucidi che non riescono ad essere ottimamente utilizzati ripercuotendosi negativamente sul funzionamento di tutto l’organismo. La catalogazione e l’utilizzo degli indici prescrive delle diete idonee alle persone affette da diabete. Solo negli ultimi anni, anche le persone sane (ma soprattutto in campo sportivo) si sono rivolte all’IG per migliorare la qualità del loro regime alimentare, aumentare il grado di tolleranza ai carboidrati, ma anche come “strumento” per intervenire sulla composizione corporea (naturalmente seguiti da persone qualificate nel settore dietologico).

Nell’ultimo decenni, gli studiosi interessati alla patologia diabetica, hanno dimostrato che una dieta contenente, come quota glucidica, carboidrati complessi non trattati, non solo migliorava il grado di sensibilità all’insulina (quindi minore secrezione post-prandiale) ma riduceva il rischio di patologie coronariche che rappresentano una complicazione comune alle persone affette da questa patologia. Studi recenti, hanno dimostrato che i diabetici che consumano carboidrati complessi, vedono migliorare la sensibilità all’insulina e in alcuni casi, la necessità di insulina esogena diminuisce sensibilmente. Generalmente, i diabetici possono consumare una quantità maggiore di carboidrati a bassa risposta glicemica, senza aver bisogno di aumentare la dose di insulina (sicuramente questi risultati, anche se meno eclatanti, possono essere visibili su soggetti sani che si attengono ad una dieta simile). C’è da specificare, che non solo l’alimentazione influisce sulla capacità di metabolizzare più o meno efficacemente gli alimenti introdotti, ma anche lo stress, le droghe, l’invecchiamento della popolazione, la mancanza di esercizio fisico sono causa di una maggiore diffusione della resistenza all’insulina e molte persone hanno scoperto di non poter seguire una dieta abbondante in carboidrati senza ingrassare (naturalmente valutando la quantità di calorie introdotte). Il grado di tolleranza ai carboidrati, può comunque essere migliorato, nonostante i fattori che lo influenzano negativamente, attraverso il consumo che privilegi i glucidi complessi a scapito di quelli semplici. Il succo del discorso, è il comprendere che, in alcuni casi ed in momenti opportuni, è meglio consumare cibi a basso indice glicemico (e quindi a lenta digeribilità) per consentire all’organismo di metabolizzarli efficacemente ed in tempi più lunghi e quindi utilizzando il glucosio derivato, ad es. da un piatto di pasta (possiede un baso indice glicemico), come energia o immagazzinandolo come glicogeno al posto di convertirlo in deposito adiposo. Abbiamo perciò capito che più basso è il grado di tolleranza a questi benedetti carboidrati, meno efficiente sarà la metabolizzazione degli stessi da parte dell’organismo e più tempo sarà necessario per utilizzare quantità anche minime di carboidrati provenienti dalla normale alimentazione, che non potranno essere successivamente sfruttati adeguatamente.

Indice glicemico nello sport

Ora cerchiamo di capire come si può sfruttare l’IG in chi pratica dell’attività sportiva e che cerca di trarre il massimo da ogni aiuto che gli si presenta.  Per iniziare, possiamo dire che un miglioramento nell’utilizzazione dei carboidrati, ottenuto tramite la manipolazione alimentare e l’utilizzo degli indici glicemici, può portare non solo ad un miglioramento ma anche ad un aumento della massa corporea senza accumulo di grasso, nonché ad un calo delle frazioni lipidiche nel sangue con conseguente riduzione dei fattori di rischio cardiovascolari.

La scarsa tolleranza ai carboidrati, si traduce nella difficoltà a recuperare energie una volta terminato l’allenamento ed a ricreare la riserva di glicogeno nei tessuti muscolari, nonostante l’esercizio fisico provochi un miglioramento della capacità di trasporto ed utilizzazione di glucosio (non solo) da parte dei muscoli, forse perché quest’ultimo effetto è transitorio. Cominciare l’allenamento con una quantità di glicogeno limitata, implica una notevole difficoltà nel portare a termine allenamenti intensi, figuriamoci per chi si cimenta in gare agonistiche che durano ore (ciclismo, maratone, etc.).  Le conseguenze di un depauperamento delle riserve di glicogeno, possono avere effetti dannosi, in quanto si può favorire la produzione di ormoni catabolici.

In sostanza, se le riserve di glicogeno sono già scarse prima di affrontare l’allenamento (o la gara), l’organismo dovrà affidarsi all’azione degli ormoni dello stress per trovare le energie che permettano di portare a compimento l’attività.  Il problema maggiore, è che questi “cata-ormoni” dello stress, continuano a rimanere in circolo anche dopo aver terminato l’allenamento, e possono rimanervi anche dopo aver consumato un pasto che psicologicamente ci fa presupporre di aver recuperato e ripristinato le energie spese (niente di più sbagliato).  L’aumento del cortisolo, portato a livelli tali che l’organismo deve affidarsi a lui per trarre energia, influenza negativamente l’elaborazione e l’utilizzazione dei nutrienti introdotti con l’alimentazione, anche a distanza di sei ore dalla fine dell’allenamento.  In aggiunta, il cortisolo, genera resistenza all’insulina e influisce sulla tolleranza ai glucidi.   Per quanto riguarda il pasto precedente l’impegno fisico, solitamente si consiglia di assumere, approssimativamente un’ora prima, dei carboidrati; se però l’organismo non è in grado di utilizzarli in modo efficace, si può avere un innalzamento rapido dei livelli di glucosio dannoso sia per l’attività (con conseguente rebound e calo delle prestazioni) sia per l’organismo stesso.  E’ proprio in questi soggetti, che può rivelarsi ottima la scelta di alimenti con indici glicemici moderati o bassi.

Abituandosi ad un regime alimentare corretto ed ad uno stile di vita idoneo, lo sportivo che prima soffriva di mal tolleranza glucidica, potrà migliorare il suo metabolismo con conseguente aumento della capacità di ricostituzione delle riserve di glicogeno, ed una diminuzione nella secrezione degli ormoni dello stress indotti dall’allenamento.  Il risultato finale comporta un miglioramento della ritenzione di azoto (anabolismo) e da un rimodellamento verso un corpo più snello.

Ribadiamo che l’attività sportiva è uno dei metodi più efficaci per aumentare la tolleranza ai carboidrati. Nelle due ore che seguono l’allenamento, il trasporto di glucosio nei muscoli aumenta ed è ormai pratica comune, assumere un pasto contenente una elevata quantità di carboidrati appena terminato lo sforzo fisico.  Questi consentono una rigenerazione del glicogeno più efficace, interrompono la glicogenesi e riducono la secrezione del cortisolo. Adesso arriva il nodo al pettine: chi possiede una normale tolleranza ai carboidrati, può assumere questo pasto non facendo attenzione al tipo di carboidrato ingerito, in quanto ha una metabolizzazione ottimale; il problema è per lo sportivo che possiede una minore capacità di utilizzare questi zuccheri introdotti (anche se parzialmente aiutato dall’attività fisica appena svolta)in quanto i livelli di glucosio nel sangue potrebbero elevarsi repentinamente rispetto alla capacità di utilizzazione dei tessuti, con la possibilità che questo si depositi come grasso e non come glicogeno.  Per questi soggetti, è consigliabile assumere un pasto con alimenti a medio indice glicemico o, se proprio se ne assumono ad elevato IG, devono avere l’accortezza di diluire l’ingestione in tempi più lunghi o in più frazioni.

Per quanto riguarda la quantità (parametro che ha un’influenza non trascurabile), deve essere stabilita in base a prove di tollerabilità effettuate sul singolo soggetto.

Mangiare più lentamente e consumare più spesso piccoli pasti, riduce efficacemente la risposta glicemica di qualsiasi tipo di carboidrati. Ingerire 50gr di glucosio in una sola volta provoca un innalzamento della glicemia a 100, mentre assumendo la stessa quantità di glucosio nell’arco di un’ora, avremo una minore risposta glicemica e farà somigliare questo carboidrato ad uno con indice di 70. Gli integratori di fibre solubili, sono utili nel ridurre la risposta glicemica causata dall’assunzione di cibi con elevato IG perché ne rallentano la digestione e l’assorbimento.

Ciò non significa che gli integratori possano sostituire gli alimenti naturali, ma solo che la loro utilizzazione può risolvere determinati problemi di carenze o intolleranze.

Termino questo argomento, a mio avviso interessante, dicendo che esistono molte persone che, pur non rendendosene conto, possiedono una mal tolleranza ai carboidrati e che seguendo diete ricche di questi nutrienti e povere in grassi, possono incorrere a spiacevoli sorprese. In questi casi è bene optare per quegli alimenti a basso o medio IG (sempre in relazione alla composizione del pasto) che possono favorire un utilizzo ottimale delle energie a disposizione ed ottimizzare tutti i processi metabolici dell’organismo che non si ritrova più in uno stato di handicap funzionale.

TABELLA INDICE GLICEMICO

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